Davide ROSSI

STORIA (E APOLOGIA) DI UNA RIVISTA (PER I CENTOSESSANT'ANNI DELLA RIVISTA AMMINISTRATIVA)- Pagg. 136 - € 21,00

(Recensione di Roberto Tomei)


Un’intera parete di volumi rilegati: questo è lo spettacolo che si è trovato davanti Davide Rossi al momento di metter mano alla storia della Rivista, senz’altro la più longeva delle riviste giuridiche che si stampano nel nostro Paese.
Essendo stata fondata nel 1850, infatti, essa non solo ha preceduto la nascita del Regno d’Italia ma ne ha accompagnato tutta l’evoluzione fino alla sua dissoluzione e all’avvento della Repubblica, continuando poi sino ai giorni nostri come Rivista amministrativa della Repubblica italiana, denominazione con la quale è a tutti nota. Un arco di vita, dunque, di oltre centocinquant’anni, nel quale è cambiata, pur continuando a restare se stessa.
Di questo “cambiamento nella continuità” Rossi è stato cronista consapevole, capace tanto di esaltarne i pregi quanto di denunciarne i limiti. Egli si inserisce così a pieno titolo tra coloro che della cultura giuridica cercano di offrire una diversa rappresentazione, proponendone un quadro più complesso, aperto a quelle sedi di sperimentazione giuridica che, come la rivista di cui si tratta, si ponevano al di fuori dei consueti canali ufficiali.
Soprattutto nella sua fase iniziale, la rivista ebbe il primario compito di rispondere ai bisogni del pubblico impiego, che necessitava di una formazione di base. Come si legge nella Rivista stessa, “al personale dell’amministrazione provinciale e comunale saranno più specialmente volte le nostre sollecitudini”. Nel giro di pochi anni, essa divenne così il collante dell’amministrazione, raggiungendo poco alla volta ogni comune e provincia della penisola. Lo <> è posto al centro dell’attenzione della rivista, tanto da diventarne il leit motiv programmatico, di contro all’immane sforzo che, in quegli stessi anni, Orlando compiva per la completa razionalizzazione del diritto amministrativo attraverso il suo metodo giuridico. La Rivista, viceversa, in quanto spazio dei “figli di un dio minore”, ossia i burocrati, gli impiegati e i segretari comunali, si fa carico soprattutto della lenta modernizzazione degli apparati, attraverso una conoscenza empirica dei problemi e un’ampia divulgazione giuridica delle relative soluzioni. Con tutti i suoi limiti, questa burocrazia si è sobbarcata un grosso compito istituzionale, avendo, come si è detto, “dovuto, purtroppo, fare lei da classe dirigente, ed il prefetto e il segretario comunale hanno di fatto governato l’Italia”. In tale ottica, la Rivista tralascia le dotte argomentazioni a favore di risposte strettamente legate al testo della legge, senza pretesa di fare costruzioni dogmatiche ma sempre pronta a dare risposte empiriche utili, con l’apertura a materie non unicamente giuridiche come l’economia, la statistica e l’organizzazione del lavoro. Certamente la Rivista si mostra capace di recepire le istanze della società senza attendere i tempi lunghi della dottrina e di costituire uno straordinario canale di comunicazione interna al mondo degli uffici negli anni a cavallo tra i due secoli. Da parte sua, la dottrina snobbava, anzi disprezzava le tematiche care alla Rivista, cui attribuiva di svolgere – sono parole di V.E. Orlando – un ruolo di “arida esegesi, limitata alla parafrasi dei testi, infarcita di un’ingombrante e sterile interpolazione di lavori parlamentari e di massime di giurisprudenza” (una frattura che, come riconoscerà proprio Orlando nel 1927, avrebbe finito per ritorcersi contro la dottrina stessa). In realtà, diverse erano le esigenze e gli obiettivi: mentre la scienza giuridica nutriva l’ambizione di ricostruire moduli giuridici, il ceto dei giuristi minori raggruppato intorno alla Rivista cercava risposte a problemi concreti, informazioni tecniche, rassegne aggiornate in grado di risolvere bisogni quotidiani. Se la principale preoccupazione era qui “l’acculturamento normativo” (R. Romanelli), lì si dava importanza decisiva alla circolazione delle idee, in special modo a quelle provenienti dalla dottrina tedesca.
Con il primo conflitto mondiale e l’intensificarsi della presenza dello Stato nella vita dei cittadini, ancora più sentita era l’esigenza di una maggiore fruizione dei testi legislativi, degli atti parlamentari e soprattutto di quelli governativi, considerato pure il consistente trasferimento della funzione legislativa all’esecutivo. La Rivista si mostra ancora una volta capace di rispondere al nuovo che avanza, apprestando uno strumentario informativo adeguato ad un’amministrazione che non poteva farsi spiazzare dai processi evolutivi in atto. Vengono così affrontate le tematiche nuove del diritto stradale, del reclutamento dell’esercito, dell’assistenza all’infanzia e agli orfani, dei privilegi accordati agli invalidi, ecc. Di fronte a questo “immane cataclisma” (F. Vassalli), la Rivista svolse un’importante e costante opera di approfondimento della legislazione, di interpretazione della normativa, “al fine di rendere prevedibili i comportamenti giuridici della burocrazia, uniformi gli aspetti linguistici, chiaro lo stile amministrativo”.
In tale ottica, la giurisprudenza appare come porto sicuro e qualificata certezza di comportamenti misurati dalla reiterata applicazione. E tuttavia, già intorno alla metà degli anni trenta la partecipazione crescente di collaboratori provenienti dall’accademia o dalle aule giudiziarie offre soluzioni che anche l’operatore legge con interesse e nel contempo raccoglie nuove fasce di interessati lettori. Sullo sfondo, ruolo decisivo di motore delle trasformazioni va riconosciuto, di lì a poco, all’avvento del nuovo tipo di Stato, in quanto la Costituzione repubblicana chiama a un diverso rapporto dialettico tra amministrazione e cittadini, che esige nuove declinazioni rispetto a quelle utilizzate per spiegare lo stato di diritto ottocentesco. Anche in assenza di una cesura chiaramente identificabile, si capisce che la Rivista, anno dopo anno, numero dopo numero, pur “senza dimenticare il burocrate spaesato nella sua piccola dimensione quotidiana”, tende progressivamente a concentrarsi su tematiche adatte anche al lettore più colto, all’avvocato aggiornato come al giudice in difficoltà. E sarà questa, d’ora in avanti, la cifra attraverso la quale sarà possibile identificare la Rivista, che comunque subisce una determinante metamorfosi nella composizione della redazione, oltre ad una innovazione della struttura con la nascita di un Consiglio di Direzione. Siamo ormai giunti alla metà del secolo scorso e la tradizionale funzione eminentemente volta all’alfabetizzazione amministrativa può dirsi ormai esaurita, onde si assiste a una lenta trasformazione della Rivista da lettura “extraccademica, quando non antiaccademica” a mensile intorno al quale raccogliere, in uno spirito di gruppo, un numero sempre maggiore di persone, “intrecciando sensibilità dogmatica e apertura sociologica, politica e comparatistica” … “solo le conoscenze tecniche, aziendali ed economiche indugiano sempre sull’uscio della Rivista senza mai riuscire ad entrarvi a pieno titolo”, a differenza di quanto accadeva negli anni di passaggio tra l’800 e il ‘900. Non è questa la sede per ricordare tutte le illustri firme che, soprattutto dopo il secondo conflitto mondiale, vanno ad affollare le pagine della Rivista, ma va sottolineato che anche attraverso tali firme, in particolare a partire dalla fine degli anni cinquanta, essa si fa paladina di riforme legislative, diventando portavoce di iniziative volte a far emergere quelle istanze di rinnovamento che spesso il potere politico cerca di tenere sopite. In ideale continuità con tale linea si colloca l’indirizzo assunto dalla redazione della Rivista lungo gli anni settanta del secolo scorso, allorché si focalizza sull’attuazione di quelle parti della Costituzione rimaste ancora lettera morta. Con l’esplosione della legislazione regionale degli anni ottanta, la Rivista si espande moltiplicandosi con supplementi su base regionale, come quelli del Veneto (1994) e della Lombardia (1995), ma vanno ricordate, a partire dall’anno 2000, anche la pubblicazione della Rivista degli Appalti e di una Collana di Studi di diritto amministrativo della Rivista stessa, dalla feconda produzione scientifica.
Lo studio di Rossi si conclude con un capitolo intitolato Le risorse del camaleontismo. Titolo felice come pochi, vista la sua straordinaria capacità di fotografare l’andamento attuale della Rivista, oggi come ieri contenitore essenziale per la circolazione della scienza e della giurisprudenza pubblicistica, puntuale sismografo dei mutamenti della realtà sociale e politica del Paese.
Come acutamente sottolineato da Rossi, “è stata forse proprio quell’assenza programmatica iniziale, che poteva rendere la Rivista debole, a trasformarsi in una carta vincente: senza ingabbiare materiali e proclami, essa ha contribuito, nella sua libertà, a fare della testata un laboratorio sperimentale; a svelare risorse inattese lasciando affiorare dal proprio interno meccanismi tecnici affiancati ad un sapere giuridico; a favorire l’uscita dal localismo regionale e l’inserimento in un dibattito nazionale”.
Rossi si mostra capace di padroneggiare una materia sterminata e ci offre un testo non solo completo ma di godibilissima lettura, quasi un romanzo del diritto amministrativo italiano (ovviamente attraverso le lenti della Rivista), ma di quelli avvincenti, che sanno prendere il lettore, facendogli venire la voglia di arrivare sino alla fine. E, quando ci si arriva, quasi si prova il dispiacere di averlo finito.


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